Lo spolverino

Il nome che diamo alle cose porta con sé una storia.   

Tra Otto e Novecento, il copriabito da viaggio era chiamato spolverino, perché proteggeva l’abito dalla polvere delle strade sterrate. Era realizzato in cotone oppure in lino di colore naturale, proprio come quello di Maria.

Maria, sempre così pacatamente sorridente. “La mia Monnalisa” la chiamava Giuseppe. Anche se a differenza di Monnalisa, a Maria potevi scorgere i denti: quattro incisivi piccoli e forti, bianchi e regolari, erano una certezza nella vita inquieta di Giovanni, Annamaria, Bruna e Domenico. Quattro figli, uno per ogni stagione. Giovanni era fantasia, forte e impavido come la primavera; Annamaria era il sole e le nuvole in estate che si scansano veloci l’un l’altra; Bruna era l’ultimo tepore malinconico dell’autunno e poi Domenico, il più ruvido e irriverente degli inverni.

Ma torniamo a Maria. Era nata un giorno del 1889, solo cento anni dopo la rivoluzione francese, e indossava sempre il suo spolverino chiaro. Non viaggiava tanto e non amava allontanarsi dalla sua casa in bianco e nero. Per cui non sapeva che, molto lontano, in territori ancora inesplorati, si stava dipanando la storia a colori dei tessuti stampati a cera, i “tessuti o batik africani”. Un percorso tortuoso tra Europa, Asia e Africa, fatto di ibridazioni culturali e geografiche, artigianali e industriali, sociali e commerciali. Ma anche di guerre, soprusi, dolore e ruberie.

Invece Maria viveva una vita felice scandita dal susseguirsi delle stagioni, all’ombra dei suoi quattro figli. Mai una macchia sul suo spolverino immacolato.

Maria aveva anche un altro figlio, Francesco, che era affetto da una malattia molto rara: Francesco non diventava mai adulto, era da sempre un bambino di 6 anni.

Un giorno improvvisamente Francesco si allontanò, portando con sé lo spolverino immacolato di Maria. Attraversò campi di girasole, paludi, prati in fiore, strade sterrate, boschi inestricabili, torrenti e colline. Fino a che non si ebbero più tracce di lui.

Una mattina di maggio al risveglio, Maria scese in giardino per annaffiare la sua rosa. Lo spolverino era lì, appeso sul pomello del portoncino, tutto colorato dal bambino misterioso che aveva sempre 6 anni.

E così, la storia di Maria e del suo spolverino è giunta fino a me, tra luci e ombre di un racconto che, come in una vecchia foto in bianco e nero, disegna volti familiari e mai conosciuti.

Franjipani è stato concepito in Indonesia, all’alba del 2009. La terra dei batik, dei colori bagnati, delle trame fitte di una natura invadente e perturbante. Ed è nato al caldo del sole millenario di Roma. E a Roma nel 2013 l’incontro con Mami e con i suoi “tessuti africani”.

Quasi da subito ho scelto di farne degli spolverini. Ho giocato con il contrasto tra l’esuberanza esotica delle stampe wax e il rigore classico ed europeo dei modelli: tessuti mimetici che nascondono tagli e dettagli. Poi la magia accade nel momento in cui li indossi e in un attimo tutto si muove, la linea si rivela, il racconto ha inizio.

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